18/05/15

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Biodossier! Appunti per una bio/etica Queer
Tanti anni fa, quando ero un ragazzino confuso (o una ragazzina incompresa, fate voi) andai a vedere una mostra di rettili di tutto il mondo allestita dal comune del mio paese (un errore grossolano che poi non feci più date le condizioni in cui vengono tenuti gli animali in questi carrozzoni itineranti)”. 
[Pep] Così si esprime, con oscura e ambigua tenerezza, la militante transgender e antispecista Barbara X, nel suo romanzo “Uncuorebestiale. Frammenti sparsi di un vissuto irregolare” (DIY Resistance 1) facendo coincidere consensualisticamente la produzione della propria libertà con quella della libertà dell'altro, in un'erotica e abissale intersezione dei livelli soggettivi individuali, in quanto creatori autopoietici di identità finzionali: e nel reciproco s-confinamento anti-biografico tra i diversi livelli diacronici del proprio percorso esistenziale (“La mia vita” scrive Barbara X “non avrebbe mai potuto avere una storia normale, cioè una storia intesa come lineare narrazione cronologica di episodi e sensazioni; sentivo piuttosto che essa sarebbe stata prima di ogni altra cosa una miriade di vicende variegate, lontanissime anni luce l'una dall'altra, un folle carosello di ricordi e rottami di attualità sconvolgenti, disuniti, sconnessi, isolati e in grado di creare dal disordine totale una Storia, la trama slegata, frammentaria e a singhiozzo di una vita contemporanea”).
Ma forse il moderno progresso scientifico ha già superato questa prospettiva per bocca di uno dei suoi più significativi rappresentanti, lo psicobiologo Alberto Oliverio che così si esprime: “Ognuno di noi si percepisce come uomo o come donna. Generalmente si ritiene che questa identità di genere sia conforme al sesso biologico per cui una donna si dovrebbe identificare in termini femminili e un uomo in termini maschili. Tuttavia ciò non si verifica sempre perché alcuni individui biologicamente maschi si ritengono prevalentemente femmine e alcune persone biologicamente femmine guardano a sé stesse in termini maschili. Altri non considerano che il proprio genere sia maschile o femminile, ma una fusione dei due sessi e altri ancora si considerano appartenenti a un terzo genere. Col termine transgender ci si riferisce quindi a un insieme di persone che esprimono nella vita un senso innato del genere diverso da quello che è stato loro assegnato alla nascita. Per lungo tempo questa condizione è stata considerata come una deviazione patologica, un disturbo legato ad un insieme di esperienze e dinamiche psichiche, e quindi oggetto di terapie diverse, generalmente inefficaci: oggi numerosi studi indicano invece che transgender si nasce a causa di una diversa impostazione cerebrale...Nei transessuali maschi (MtF) il numero dei neuroni nella BST è simile a quello che esiste nelle donne-ossia è circa la metà rispetto a quanto si verifica nei maschi cisgender, a proprio agio col genere assegnato alla nascita...L'inversione del numero di questi neuroni [quelli che producono somatostatina] nel cervello transessuale viene considerato come un segno della dissociazione che si verifica tra il differenziamento dei genitali e quello cerebrale” (da “Mente & Cervello. Il mensile di psicologia e neuroscienze”, aprile 2015).
E' significativo come lo Stato Terapeutico contemporaneo amplificantesi, ormai, tramite l'ideologia biotecnologica e trans-umanista in un progetto, in realtà apocalittico, di salvezza globale dell'umanità e del vivente, attui una sorta di rovesciamento del progetto che Susan Sontag descrive nel suo volume “Malattia come metafora” (1978): “Esiste almeno la promessa di un trionfo sulla malattia. Una malattia “fisica” diventa in un certo senso meno reale-ma in cambio più interessante- nella misura in cui si può considerarla malattia “mentale”. In tutta l'epoca moderna la speculazione si è continuamente sforzata di estendere la categoria della malattia mentale. In effetti in questa cultura il rifiuto della morte è in parte un enorme allargamento della categoria di tale malattia. La malattia si estende grazie a due ipotesi. La prima è che si possa considerare malattia ogni forma di deviazione sociale. Di conseguenza se si può considerare malattia il comportamento criminale i criminali non devono essere condannati o puniti, ma capiti (come capiscono i medici), curati, guariti. La seconda che ogni malattia può essere considerata sotto l'aspetto psicologico. La malattia è cioè interpretata, fondamentalmente, come un evento psicologico e si incoraggia la gente a credere che ci si ammala perché (inconsciamente) lo si desidera e che ci si può curare mobilitando la propria volontà; cioè che si può scegliere di non morire della malattia. Sono due ipotesi complementari. Mentre la prima sembra alleviare il senso di colpa la seconda lo ripristina. Le teorie psicologiche della malattia sono un mezzo poderoso per gettare la colpa sul malato. Spiegare ai pazienti che sono loro stessi la causa, involontaria della propria malattia significa anche convincerli che se la sono meritata”.
Quest'ultimo percorso pare oggi trovare il ribaltamento che lo implica ma lo supera: la malattia mentale, preservando e trasferendo il proprio stigma ad un livello fisico (tramite la sua ri-lettura in tal senso) conferma e ristruttura l'utilizzabilità strategica e la trasferibiltà di quest'ultimo a livello sociale nel senso genetista. Lo Stato terapeutico conferma infatti da sempre patogenicamente l'idea di famiglia, traducendo il proprio neo-familismo in un rinnovato veicolo di controllo sociale e di amplificazione indefinita dei processi di stigmatizzazione. La ricerca infinita quanto inutile delle cause delle varie malattie e devianze ha uno specifico finalismo, come scrive lo storico JohnBoswell nel suo saggio “Cristianesimo, tolleranza, omosessualità. La Chiesa e gli omosessuali dalle origini al sedicesimo secolo” (1980): “Per quanto riguarda la problematica eziologica bisogna notare che ciò che “causa” l'omosessualità è una questione importante solo per le società che considerano i gay gente bizzarra o anomala. La maggioranza della gente non si domanda che cosa “dia origine” alle caratteristiche statisticamente comuni, come il desiderio eterosessuale o l'uso della mano destra; le “cause” sono ricercate solo per gli attributi personali che vengono ritenuti al di di fuori dei modelli consueti di vita”. 
Tipicamente si pensi all'inutile e infinita ricerca delle cause della malattia mentale, a tutt'oggi non rinvenute: quest'ultima oscilla fondamentalmente tra la stigmatizzazione irrimediabile dei familiari attraverso l'accusa di essere responsabili della “patologia” del congiunto in quanto autori di relazioni “distorte”, se non decisamente “patologiche”, e attraverso quella di esserlo in quanto portatori del mai rinvenuto “gene della follia”, tanto credibile quanto il fantomatico “gene gay” o “gene trans”. I tre geni in questione sono affabulati socialmente e mediaticamente in quanto mirano ad una lettura sottesamente antropomorfica dell'apparato genetico, il quale sarebbe portatore di modalità etiche, culturali e relazionali, nel senso della sua identificabilità con esse, da squalificarsi con “politicamente corretta” tolleranza, in attesa della loro eliminazione. D'altronde domandarsi “la causa” del fatto che un individuo abbia una data personalità, corrispondendo al tentativo sociale, sotto forma di disvelamento eziologico, di trovare un capro espiatorio concettuale per il presentarsi dell' “inesplicabile”, ha senso quanto domandarsi “la causa” o “le cause” del fatto che un individuo sia sostenitore del partito democratico piuttosto che di quello repubblicano, laddove sarebbe semmai significativa una contestualizzazione che consenta di comprendere i diversi modi d'essere individualmente elaborati nella loro dialettica e affermativa ragion d'essere.
L'altro versante della problematica, con riferimento all'omosessualità più in generale, è messo in luce nel 2005 dalla psicoanalista Simona Argentieri, che così si esprime: “Un esempio...a mio parere molto convincente è quello relativo all'omosessualità, che una fascia di ricercatori nordeuropei vorrebbe ricondurre ad una ragione genetica. Il paradosso è che tale ipotesi riduttiva e mortificante (tra l'altro poco accreditata sul piano scientifico) che vuole confinare la sessualità a “sindrome” condizionata da un supposto “gene” ha invece incontrato non solo il favore di alcuni bempensanti, lieti di ricostruire in chiave di DNA un modernissimo piccolo ghetto delle pratiche contro natura: ma anche di alcuni omosessuali che vi hanno trovato un alibi per non interrogarsi su di sé e per non doversi considerare protagonisti delle proprie vicende psicologiche e amorose.
In tal senso prevarrebbe la promozione di un criterio biografico dell'auto-interrogazione, il quale, a continuo rischio (e per lo più con la garanzia) di trasformarsi in un criterio patografico, la psicanalisi propone, sulla base dei suoi storici meriti, come propria specificità. Una pertinente risposta proviene da uno di testi che più nettamente attaccano la concettualizzazione psichiatrica, la biografia di Leopold VonSacher-Masoch dello storiografo Bernard Michel (1989). Così Michel mette in luce la sua valutazione della psichiatria che, attraverso le dottrine di Krafft-Ebing, patologizzò lo scrittore austriaco: “Krafft-Ebing creava un collegamento stretto, discutibile e in seguito abbandonato tra sadismo e masochismo che sarebbero state le due facce complementari della devianza sessuale. Così cominciava lo studio del masochismo, da Freud a Deleuze ma, come ho detto nell'introduzione, non è questo l'argomento di questo libro. Leopold respinse indignato le affermazioni di Krafft-Ebing, ma ritenne inutile una refutazione pubblica. Tra l'immagine deformata che dava di lui lo psichiatra e la realtà della vita non poteva esserci alcun punto di contatto... La psicologia può servire a orientarsi nei salotti letterari di Parigi o di Vienna, non negli spazi infiniti della steppa galiziana che schiacciano gli uomini, se riescono a sfuggire all'inseguimento dei lupi o al peso interminabile della corvée. Leopold è moderno perchè barocco. E questo spiega la sua violenza, la sua forza, la sua indifferenza per i limiti: per questo ha tanto urtato certa critica e certo pubblico”. Il titolo, in realtà anti-biografico, che il traduttore Savino D'Amico, nel 1990, ha scelto per il volume di Michel, “Il piacere del dolore”, mette in luce, con una nozione tra estetologico e scioccante, Masoch come inventore di una modalità estetica, colta nella sua quintessenzialità, e artista totale della propria esistenza: in luogo che oggetto di una disamina biografico-narrativa. 
Già nel 1988 il fotografo radicale Joel-Peter Witkin rende pubblica la fotografia “Apollonia e Dominetrix creano il dolore nell'arte occidentale”. Così Witkin si esprime nel 1985 riguardo la propria ricerca/creazione visiva: “Un elenco parziale di ciò che mi interessa. Prodigi fisici di ogni tipo: piccole teste a capocchia di spillo, nani, gobbi, transessuali pre-operazione, donne barbute, artisti da baraccone che lavorano o in pensione, contorsionisti (erotici), donne con un solo seno (centrale), persone che vivono come eroi da fumetto. Satiri, gemelli uniti per la fronte, chiunque abbia un gemello parassitico, gemelli che hanno in comune un braccio o una gamba, ciclopi viventi, persone con code, corna, ali, pinne, artigli piedi o mani rovesciati, arti elefantini, ecc. Chiunque abbia braccia, occhi, seni, genitali, orecchi, nasi o labbra in più in più. Tutte le persone con genitali straordinarianìmente grandi. Padroni e schiavi del sesso. Donne con la faccia coperta di pelo con grandi lesioni della pelle che siano pronte a posare in abito da sera. Cinque androgini disposti a posare insieme come les Demoiselles d'Avignon. Anoressici senza peli. Scheletri umani e puntaspilli umani. Persone con un intero guardaroba di gomma . Uomini-lupo. Collezioni private di strumenti di tortura. Romanzo di parti umane, animali, aliene. Ogni genere di estrema perversione visiva. Ermafroditi e teratoidi vivi e morti. Una fanciulla bionda con due facce. Qualsiasi mito vivente. Chiunque porti le ferite di Cristo”, mentre già nel 1976 rispondeva, con aristocratico masochismo, alla psichiatria, in nome della propria battaglia iconofila/iconoclasta: “...Ho evocato un futuro di anni spesi in un infinito camminare con un'oggetto strano in mano e la macchina fotografica al collo, ripetendo di continuo gli stessi gesti, come un vecchio pazzo e solo, disprezzato dalla gente e colpito dalla sassaiola dei bambini; un giorno poi verrò trovato morto nello squallore circondato da migliaia di fotografie che avevo stretto al petto nel momento della morte. Il mio unico conforto è sapere che non sono solo, esisto nel mondo e ho un'esistenza reale che non si lascia né descrivere né penetrare. La mia opera rappresenta questa ricerca”. 
Lo conferma ben più radicalmente l'anarchico Renzo Novatore: “Ma solo colui che conosce e pratica la furia iconoclasta della distruzione può possedere la gioia nata dalla libertà, di quell'unica libertà resa fertile dal dolore. Mi ribello contro la realtà del mondo esterno per il trionfo della realtà del mio mondo interno”.

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