16/11/15

Copertina del demotape degli Inzirli (1993)
[We talk about...Inzirli!]
Max Mauro. Inzirli: una storia per caso (1990-1996)
[Sarta] "Ed ecco a voi...gli Inzirli! Questo libretto non è l'ennesima nostalgica biografia romanzata in chiave eroica dell'ennesimo gruppo punk del passato, ma un sincero documento sulla vita della prima punk band... che ha cantato in friulano. Partendo dal nome (che in dialetto significa “vertigine”), gli Inzirli iniziano la loro attività all'alba degli anni Novanta, quando quattro ragazzi dei dintorni di Udine decidono di metter su un gruppo punk scrivendo testi nella loro lingua originaria: non per folklore, ma perché “usare il friulano è essere neri in un mondo di bianchi, donne in una società di maschi padroni e preti bigotti, nomadi in un mondo di stanziali, punk, gay e tutto ciò che di minoritario va contro il ben pensare della maggioranza cogliona e pecorona”. 

Il libro racconta i sette anni di attività di Oscar, Max, Marco e Gb tra musica, concerti rovina e concerti pacco, furti di strumenti, vicende di militanza e solidarietà, occasioni di crescita e amicizia ma anche incontri con i peggiori personaggi ubriachi e molesti. Tutte cose che, bene o male, abbiamo sperimentato anche noi!
Il modo con cui tutto questo viene raccontato è naif e profondamente sincero: chiunque abbia mai suonato anche nel più sgangherato gruppo punk può riconoscersi nelle parole scritte da Max, voce e più giovane membro della band, con la differenza non indifferente che di vivere in una terra di confine, di margine, lo sbattimento per fare qualsiasi cosa è doppio e la noia e il perbenismo possono distruggerti molto più che in una grande città, dove i problemi forse sono differenti. “Ho sempre pensato che vivere l'hardcore e il punkrock (…) significasse essere parte di una cultura (…). Comunicare attraverso la musica che vuole comunicare e non intrattenere; l'autoproduzione, creare rapporti con altri che operano allo stesso livello, cercare strade di dissenso nuove e coinvolgenti, sono tutti aspetti di questa cultura. Ma c'è, al principio, quella sensazione vitale (…), quella sensazione di aver trovato qualcosa in cui riconoscersi, anche se la gente attorno non capiva, senza la quale non sarebbe venuto nulla dopo” (…). “Per me, questa musica e quello che ci ruota intorno in termini di comunicazione ha significato, semplicemente, trovare un posto mio dove nessuno mi facesse sentire estraneo o diverso”. 
La storia degli Inzirli nasce da qui: un incontro ad un concerto in uno squat, le prove in casa, i primi concerti e i dischi, l'importanza della rivista Usmis, che raccoglieva i contributi della controcultura anarchico-libertaria in contesto friulano, fino alle trasferte negli squat di nord italia e Slovenia, fino all'epilogo che ha portato allo scioglimento. Già, perchè un gruppo punk si scioglie? “Quanti gruppi hanno continuato a suonare quando avevano ormai già detto il loro, sopravvivendo a loro stessi? Credo che anche i Kina abbiano sentito una certa “fatica” ad un certo punto. Si capiva. Punk è grado zero, origine, inizio, momento dello sboccio, prima parola, estemporaneità, istinto, errore, vertigine. Imparare, provare se vuoi, ma quando hai imparato non puoi utilizzare più quello che hai imparato, non può diventare un lavoro. Devi ripartire da zero per non ucciderlo e ritrovarne lo spirito”. 
In effetti, ci è capitato spesso di chiederci: per quanto potrà durare la magia che ci unisce in quel sabba selvaggio e gioioso che, in fin dei conti, è un concerto punk? Qual'è il vero significato della nostra ostinazione a voler vivere le passioni più brucianti in questo modo, con istinto ferino, sbattendoci per macinare chilometri e scrivere musica, ripetendo tutte le volte le stesse situazioni, uguali eppure diverse, all'interno di spazi occupati? E la risposta, tutte le volte, sta negli sguardi delle persone che incontri, nell'esperienza viva di un'affinità che non trovi altrove, in quella sensazione unica di fare qualcosa di speciale, di autentico, in un mondo di cose finte. Alla domanda "fino a quando?", forse ci si dovrebbe chiedere "perchè smettere?". E la risposta, da parte nostra, ovviamente, è scontata!

Inzirli al CSOA Gramigna di Padova (199?)

20/09/15


Capitolo 6: 
Lunedì 1 giugno a Kiev. Domenica 31 maggio, da Mosca a Kiev, e concerto.
 
[Il nostro tour nell'ex-Urss si conclude a Kiev, in Ucraina. Nel clima mite e disteso della capitale, troviamo la serenità per ricostruire l'ultimo, convulso giorno di concerti, che ci ha portati da Mosca a Kiev: dopo tante vicissitudini, arriviamo all'ultimo livello e affrontiamo il mostro finale: l'Areoflot, la compagnia di bandiera della Federazione Russa. Un nemico temibile e subdolo, l'unico che è andato vicino a decretare il game-over. E' con un'arma speciale (l'italianità) che, in extremis, lo sconfiggiamo. E vinciamo un soggiorno tutto spesato al Grand Hotel. Buona lettura!]  

La periferia di Kiev al crepuscolo...

Ucraina, tra la gente, è diventato sinonimo di guerra. Un guerra di cui tutti sanno poco, o forse niente. L'idea di chiudere il nostro tour con un concerto a Mosca e uno il giorno dopo a Kiev è stata una scelta voluta, in parte simbolica. Per dimostrare che le due comunità punk, quella russa e quella ucraina, sono unite, che sono estranee alla spazzatura ideologica che ruota attorno a questo conflitto. E anche per supportare i ragazzi e le ragazze della scena punk anarchica di Kiev, che non vedono un band straniera da oltre un anno, perché, a causa del terrorismo dei media, nessuno mette più piede in Ucraina. Quando a Yakutsk, a diecimila chilometri a est da qui, abbiamo detto che domenica avremmo suonato a Kiev, Dima si è incupito e ha pronunciato la fatidica frase (che stavamo aspettando): "Ehm... ma non è pericoloso?". La stessa frase che ci siamo sentiti ripetere decine, centinaia di volte in Italia.

Manifesto di propaganda di epoca sovietica: "Donbass: il cuore della Russia"
Una conferma che le coordinate geopolitiche di questa guerra risultano drammaticamente oscure ai più. A qualsiasi longitudine e latitudine. Ma è normale: i media, sia italiani che stranieri, hanno dedicato attenzione alla situazione ucraina ai tempi di Euromaidan, tra il 2013 e il 2014, quando la cosa, evidentemente, faceva notizia. Poi il silenzio. Dopo gli eventi di Kiev i problemi si sono spostati nell'est del paese, nella regione del Donbass, laddove oggi sorge il nuovo stato (non riconosciuto, se non dalla Russia di Putin) di Novorossiya, strappato all'Ucraina dalle milizie popolari filo-russe. Dall'aprile del 2014 sul fronte orientale si combatte ininterrottamente, a dispetto di alcune tregue imposte ma mai rispettate, mentre nella capitale la situazione è rientrata nella normalità. A tutti e tutte, nel mondo, però è rimasto impresso solo un campo di battaglia: quello di piazza Maidan a Kiev. Così nell'immaginazione collettiva Kiev è ormai sinonimo di scontri a fuoco, disordini e barricate. Certo, le bandiere gialle e azzurre che vediamo sventolare da ogni parte della città e i manifesti anti-russi affissi per le strade ci ricordano ancora oggi che qualcosa non va, che esiste un sentimento di odio che difficilmente, a breve, renderà possibile la pace; ma a Kiev, della battaglia, si percepisce soltanto l'eco. 

Manifesto americano della II Guerra Mondiale "Russo: lui combatte per la libertà"
Dalle nostre parti, a pensar alla "pace" vengono in mente lenzuola arcobaleno appese ai balconi, simboli pasticciati sulle guance dei boy-scout e manifestazioni buoniste autorizzate dallo stesso potere che nel nome della pace si arma e addestra soldati. Perché se l’Italia, da costituzione, ripudia la guerra allora basta mischiare le carte e chiamar la guerra missione di pace. La “pace” per un Paese con la memoria breve come il nostro, ha quel sapore stantio della passività e dell’impotenza. Come si può parlare di pace senza scadere nella retorica e nel romanticismo? Che cos’è la “pace” se neanche un milione di persone in piazza che manifestano “pacificamente” può davvero anche solo disturbare il potere? Ma soprattutto, chi siamo noi per parlare di pace in un contesto complesso come quello dell’Ucraina? Eppure una ragazza a Mosca ci si è avvicinata timidamente alla fine del concerto e ci ha chiesto di dire ai punk ucraini che a loro, alla gente comune, quello che stanno facendo i russi in tutta questa storia fa piuttosto schifo. Il giorno seguente del concerto a Kiev ci ha scritto su Facebook per sapere come avevano reagito al suo messaggio di pace. Ci teneva per davvero. 
Da Kiev, dicevamo, il fronte dove si spara è lontano. Su quel fronte è morto un amico di Dima e Toyla, che da Yakutsk è partito per combattere nel Donbass dalla parte dei separatisti russi. Una delle tante macabre assurdità di questa guerra, che chiama a sè ragazzi qualsiasi, accesi da un richiamo che alcuni chiamano patriottismo, altri idealismo. Noi facciamo fatica ad accettare termini così ovvi e triti. Per chi, volontariamente, getta la propria vita nel fango delle trincee per un ideale che, di certo, verrà tradito da chi salirà al potere alla fine di questa guerra, sorge spontaneo un umano sentimento di pietà, ma tutta questa storia, a noi, suona più sinistra che altro. Vediamo soltanto due nazionalismi, uno di fronte all'altro, sostenuti dai Poteri che decidono i destini del mondo (da una parte gli USA dall'altra la Russia... e in mezzo l'Europa).
A Kiev oggi è primavera inoltrata e il sole splende: la città è vivace, c'è una specie di festa che non capiamo bene, con la banda che suona, le famiglie, i bambini... Kiev non ha l'aspetto funereo e ostile delle città russe. E' piena di locali, ristoranti, negozi. Non abbiamo voglia di scattare fotografie, ma acquistiamo ad un mercatino delle pulci un libro fotografico della città che risale all'epoca sovietica. Il libro è stato stampato nel 1989, ma molte delle foto sono state scattate almeno vent'anni prima. Il clima che oggi c'è qui a Kiev non è tanto diverso da quello che traspare da queste vecchie fotografie dai colori vivaci, evidentemente taroccate dai grafici sovietici per risultare più brillanti...



L'architettura del centro della città è sopravvissuta sia alla seconda guerra mondiale che agli scempi brutalisti dei sovietici: Kiev ha l'aspetto di una cittadina mitteleuropea, di una Berlino meno caotica, ma ugualmente pervasa da uno spirito inquieto, votato al divenire. Il tour dei Kalashnikov, oggi, primo giugno è finito: possiamo finalmente rilassarci e concederci, addirittura, un pranzo al  ristorante! Niente lussi sfrenati naturalmente: scegliamo una trattoria decadente e tremendamente kitsch chiamata "Vesuvio": vorrebbe evocare i sapori dell'Italia, ma (per fortuna) finisce per essere  ucraina al cento per cento, dall'arredamento al menù. 

"Aeroflot: welcome to flight!"
La giornata di ieri, che ci ha portati da Mosca a Kiev, per suonarci, è stata rocambolesca ed estenuante. Siamo arrivati all'aeroporto internazionale di Mosca di primo mattino, abbiamo salutato Denis e siamo entrati nella hall ignari che il tabellone delle partenze avesse in serbo per noi un'amara sorpresa: la cancellazione del volo per Kiev! E' iniziata quindi la consueta e snervante fila allo sportello delle informazioni dell'Aeroflot con la certezza di trovarsi davanti, alla fine, alla solita scarsa empatia che i russi (soprattutto quelli dietro ad un bancone) sembrano avere ereditato dall'epoca sovietica. E alla quale sembrano piuttosto affezionati. 
Dopo un'ora di discussioni e incomprensioni varie, veniamo dirottati su un volo che parte nel pomeriggio, il quale a sua volta scopriamo essere in ritardo di circa due ore. La domanda sorge spontanea: chissà se arriveremo a Kiev in tempo per suonare? Cerchiamo di sfruttare il debolissimo wi-fi dell'aeroporto per coordinarci con i contatti in Russia e Ucraina ed avvisare del nostro clamoroso ritardo. Come dicevamo, a causa di paranoie varie, nessuna band straniera mette più piede in Ucraina dai fatti di Euromaidan e sarebbe clamoroso che questo nostro tentativo di suonare a Kiev fallisse per una congiura dell'Areoflot! Dopo un paio di file allo sportello, grazie ad una breve ma intensa sceneggiata all'italiana, abbiamo la meglio: riusciamo a farci dare dalla compagnia aerea dei buoni pasto e un soggiorno gratuito di alcune ore in un albergo di lusso a ridosso dell'aeroporto. Attendiamo così il nostro volo negli ambienti ovattati di un hotel a quattro stelle, un acquario di vetro e moquette nel quale nuotano uomini d'affari e famiglie della nuova, stucchevole upper-class russa. Nell'esclusivo negozio all'ingresso fanno bella mostra di sè piatti in ceramica riportanti le effigi di Putin, Lenin e Stalin. Vent'anni fa, dopo che le statue di Lenin erano state abbattute e prese a martellate (quelle di Stalin erano già sparite trent'anni prima), sarebbe stato impensabile trovare, in una catena di alberghi di lusso, un souvenir con l'effige dei leader comunisti, o che riportasse in bella mostra la falce e il martello. Oggi, nella Russia "capitalista" e "democratica" è perfettamente normale. Il motivo di tutto questo è da cercare nel progetto politico-messianico di Putin e degli oligarchi che muovono i destini del paese: restaurare l'impero sovietico.

Finissime porcellane di propaganda...
Ci accorgiamo poi di un ulteriore macabro dettaglio: sullo sfondo dei piatti è riportata una cartina del'Ucraina, in particolare della penisola di Crimea, e la scritta in cirillico: Крым-Наш! Ovvero, "La Crimea è nostra!". In uno dei piatti, tra l'altro, la bandiera russa non avvolge solo la Crimea, ma, casualmente, tutta la regione del Donbass, quella regione nella quale i russi combattono per l'indipendenza dall'Ucraina, ufficialmente senza l'interferenza della Russia di Putin, ma, in realtà, con il sostegno logistico e militare di quest'ultima. Tutto ciò, ai nostri occhi di europei, assuefatti al fair-play (o all'ipocrisia) dei nostri politici, ha qualcosa di follemente spudorato. Osserviamo, nello stand accanto, una serie di t-shirt con la foto di Putin in varie situazioni informali: una lo raffigura a petto nudo, a cavallo, mente caccia nella taiga, un'altra a bordo di una barca con occhiali da sole tipo Tom Cruise in Top Gun, e sotto la scritta in russo "Il mio Presidente". Aiuto, scappiamo...

Cartellone pro-annessione della Crimea alla Russia per il referendum del 2014, affisso davanti al parlamento di Simferopol: "16 marzo, noi scegliamo: così o così"...
L'arrivo a Kiev è trafelatissimo, corriamo giù dall'aereo e affrontiamo i controlli dei passaporti, noncuranti che un gruppo di italiani vestiti di nero provenienti da un paese nemico avrebbe di certo attirato attenzioni particolari. La signorina in divisa ci chiede chi siamo, e noi le rispondiamo: eh, i Kalashnikov! Ci rendiamo conto solo in quell'attimo che avremmo potuto anche presentarci un po' diversamente... ma lei ha senso dell'umorismo evidentemente, e le viene da ridere come viene a noi. Ci fa qualche domanda generica e poi ci congeda. Giusto in tempo per salire sul taxi e conoscere Anton il nostro contatto ucraino. Al contrario del tipico russo, Anton è sempre sorridente, decisamente giulivo. Ha lunghi capelli biondi e un cappello da pesca perennemente premuto sulla testa. Per tutto il viaggio non dice una parola, limitandosi a rispondere, quando le capisce, alle nostre domande. La sua serenità estatica ci tranquillizza. Verso le nove, una decina di minuti prima di salire sul palco, eccoci scaricati in un posto che nella fretta non sappiamo nemmeno come si chiama, ma sembra in tutto e per tutto uno squat europeo, di quelli un po' improvvisati in  vecchi complessi industriali. Imbracciare gli strumenti e iniziare a suonare è una catarsi, finalmente ci liberiamo di tutta la tensione accumulata... 



Nel dopo-concerto, scambiamo qualche battuta con i punk locali e presto i discorsi virano, inevitabilmente, sulla guerra. Un giovane punk dall'aspetto da squatter europeo, ci dice, per esempio, di essere "anarchico, ma anche nazionalista". Restiamo un po' interdetti. Ci spiega: "I russi sono miei fratelli, come lo siete voi, ma la Russia e l'Ucraina sono due cose diverse. Noi siamo ucraini, e non vogliamo essere russi". Se non si conosce la storia dei rapporti tra i due paesi degli ultimi centocinquanta anni, è arduo capire il senso di queste parole, in caso contrario è fin troppo semplice: la Russia ha oppresso l'Ucraina per oltre cento anni, prima con gli Zar poi con i bolscevichi. Di mezzo c'è stata una guerra civile, e un genocidio, l'Holodomor (che in lingua ucraina significa "dare la morte per mezzo della fame"). Abbiamo imparato che qui, come nel resto nell'ex Urss, parole cariche di storia e d'ideologia come "nazionalismo", "comunismo", "fascismo" e persino "anarchia" sono strumenti linguistici privi di utilità per comprendersi. Anzi, andrebbero del tutto evitate. Quelle stesse parole, pronunciate da noi e da loro, evocano vicende incompatibili, ricordi discordanti, immaginari inconciliabili. Un muro, questa volta semantico, è ancora in piedi tra l'est e l'ovest, e rischia d'impedirne la condivisione del futuro.

Spaghetti in salsa vesuvio
Ma eccoci qui, infine, alla trattoria Vesuvio di Kiev, davanti ad un bicchiere di vino moldavo e ad un piatto di spaghetti in "salsa vesuvio". Fra qualche ora prenderemo un aereo che ci porterà prima a Mosca e poi, in serata, a Milano. 
Usciti dal ristorante, notiamo un piccolo negozio di dischi all'angolo opposto della strada. Sugli scaffali in bella vista ci sono i prodotti della Kiev hipster: elettronica, indie-rock, hip-hop... ma noi, ovviametne, ci fiondiamo in un settore in penombra dove sono raccolti alcuni vecchi dischi di epoca comunista. Usciamo con il vinile di una cantante russa degli anni '80 che prevedibilmente desta la perplessità del commesso: si intitola Guarda  indietro alla tua infanzia, canta tale Tatiana Antsiferova. Le canzoni hanno titoli malinconici come Non dimenticarmi, Aspettando ancora la tua risposta, Una chiamata da lontano... Sembrerà strano, ma è la colonna sonora ideale per titoli di coda di questo tour... 

 

Scopriamo che Tatiana Antsiferova è russa, ma ha studiato in Ucraina a Karkhiv (quando sull'atlante i due paesi non esitevano perchè era tutta Urss) e, incredibile ma vero, negli anni settanta ha esordito come cantante di un gruppo pop di nome... "Vesuvio"! Come la salsa del ristorante "Vesuvio" di Kiev! A volte capitano pazzesche coincidenze...  
Guarda indietro alla tua infanzia è del 1986, risale all'epoca di Gorbaciov. E in effetti quella data ci riporta alla nostra infanzia, quando la Russia era proprio Gorby, che vedevamo alla tv, ma anche Danko e Ivan Drago, per la verità. Una specie di melting-pot di fantasia, cronaca e ideologia che ci affascinava per il suo essere inaccessibile, per il suo stare oltre un limite invalicabile, un finis terrae non tanto geografico, quanto dell'immaginazione. 
Negli ultimi anni, abbiamo viaggiato, in lungo e in largo in quell'oltre, nell'(ex?)impero sovietico, venticinque anni dopo il suo crollo e venticinque anni dopo la nostra infanzia. Mettendo insieme i pezzi del puzzle, il quadro è chiaro: l'eredità di quell'epoca è ben lungi dall'essere archiviata. Fantasmi si agitano sotto le macerie, vecchi nodi vengono al pettine...

Lenin scruta pensieroso l'orizzonte. In mezzo ai rottami, da qualche parte in Siberia...


Feddy Lavrov, all'inizio degli anni '80
Postilla. Intervista a  Feddy Lavrov dei Отдел Самоискоренения... 
Avevamo iniziato questo report con il racconto della nostra data a San Pietroburgo e parlando della  prima anarcopunk band della Russia comunista, gli Отдел Самоискоренения. Dopo aver pubblicato quella puntata del report, ci ha scritto Feddy Lavrov, il leader della band: abbiamo scoperto non solo che Feddy è ancora in circolazione, ma che ha da poco riformato gli Отдел Самоискоренения! Non abbiamo perso occasione per fargli qualche domanda, su come fosse essere punk nell'Unione Sovietica di fine anni '70 e su temi più attuali, come la situazione ucraina...

Ciao Feddy! Come hai conosciuto il punk-rock negli anni '70? Com'era essere un punk nella Leningrado dei primi anni '80? "La prima volta in assoluto ho sentito parlare di punk come di una "nuova moda", in un numero della rivista satirica “Krokodil” pubblicata in URSS nel 1977. L'ultima tendenza londinese non veniva nemmeno chiamata punk, ma il suo nome è stato traslitterato in russo. Stesso discorso per i nomi dei gruppi punk, come Stranglers, Dead Boys e Damned, definiti come "band jazz che hanno inventato un nuovo stile e si esibiscono sul palco con tagli di carne fresca appese al collo" (!!!). Il governo aveva paura della musica rock in sé, figuriamoci di questo genere nuovo di zecca… Poi la televisione di stato ci ha fatto vedere dei “veri punk” per le strade di Londra e qualcosa si è acceso dentro di me. Avevo 13 anni quando ho detto a mia madre: “Ehi, mamma! D’ora in poi sono un punk!”. Fortunatamente, lei è stata così intelligente da comprarmi una batteria ed altre attrezzature per suonare. Ma che cosa potevamo fare come gruppo punk in Unione Sovietica nei primi anni 1980? Beh, suonare chiusi nei nostri appartamenti. I concerti dal vivo non erano ammessi senza autorizzazione ed ogni infrazione in questo senso era rigorosamente perseguita. Anche la registrazione casalinga era illegale, ma sono riuscito ugualmente  a mettere insieme un studio artigianale e così ho subito iniziato a registrare le nostre prove e le jam session. L’unica funzione di queste registrazione era di ascoltare quello che avevamo suonato, non era granché vista la qualità dell'attrezzatura. Tutto quello che avevo era un registratore monofonico con nastri 6mm e una serie di piccoli mixer a 3 canali messi in linea in modo da poter collegarci tutti gli strumenti e i microfoni. Non avevamo ampli e nemmeno effetti per le chitarre. Anche queste ultime erano realizzate artigianalmente: personalmente ho costruito due bassi e tre chitarre! Tutti erano autentici pezzi di art-brut! Fuori, intanto, la polizia era ovunque, prelevava punk e hippie direttamente dalla strada e ne collezionava le foto segnaletiche…"

Feddy Lavrov, nel 2014
Per noi che vivamo in europa occidentale e assistiamo alle odierne vicende ucraine è importante sapere che cosa i russi (soprattutto punk!) pensano della situazione, perché qui c'è un sacco di confusione e i media sono superficiali. Dicci...  
Il mio consiglio è di lasciare da parte tutti gli argomenti, le opinioni pro e contro. Lasciamo che il popolo ucraino scelga il proprio destino. Smettiamola di chiamare fascisti tutti, da entrambi i lati. E poi vedremo che cosa effettivamente accadrà. Gli ucraini hanno rovesciato il regime sovietico, nelle forme dello Stato e (che è ancora più importante) nei propri cuori. Hanno aperto una pagina vuota della loro storia. E questo è ciò che noi - i russi - avremmo dovuto fare nei primi anni del 1990, quando l'Unione Sovietica cadde. Avremmo dovuto aprire le porte di tutti gli uffici segreti, prelevare i documenti e renderli accessibili a tutti. Ogni vittima del regime dell'URSS avrebbe avuto allora finalmente un nome. Il regime sovietico era governato dai servizi segreti, la NKVD e il KGB. Fin dall'inizio questo potere è stato istituito dai rivoluzionari per difendere la vittoria del socialismo. E con Stalin, coincise con la massima carica dello stato per così tanto tempo che questo potere è diventato l’unica legge in Urss. L'anonimo, sottile, invisibile potere, spietato e senza volto, della massa grigia di quelli che sono sempre stati dietro al Governo. E sono ancora lì. Nulla qui è mai cambiato. Oggi fanno i soldi, governano lo Stato, controllano i mass media, creano stati d'animo e pongono gli obiettivi da raggiungere: possono fare letteralmente quello che vogliono. Questo era ciò contro cui il cittadino ucraino di Euromaidan ha combattuto: il patrimonio più terrificante dell'URSS, il potere illegale e totale. Il potere di Putin è assoluto e lui è un vero figlio del sistema: che altro ci si poteva aspettare da lui? Ormai possiamo leggere in faccia a certi personaggi che tipi sono: ne ho viste tante di persone come lui negli anni in cui ho lottato contro il KGB: piccoli uomini con complessi enormi, e smisurate ambizioni. Non c'è niente di nuovo per me in questa persona. Ma fortunatamente, non è per sempre...".
I nostri contatti con Feddy e gli Отдел Самоискоренения non finiscono qui, perchè a dicembre faremo insieme un breve tour delle repubbliche baltiche, quattro date tra Lettonia ed Estonia. Naturalmente vi racconteremo come andrà. Alla prossima quindi!


15/09/15

[Kalashnikov collective DIY anti-booking agency presents...]
Sabato 5 settembre 2015 / C.O.A. T28: synth-punk meeting! 
La data milanese dei canadesi Teledrome, con il loro synth-punk devoto all'estetica anni '80, è l'occasione per mettere insieme una serata musicalmente eclettica, in cui dare voce a sintetizzatori e laptop, seppur calati in un contesto punk bello scassato come piace a noi. Il T28 è lo scenario ideale per questo happening che inaugura la stagione dei concerti della scena punk diy nella nostra fottuta città.
Questa volta la collaborazione è con Knife Show, aka il mitico Tadzio, che alle sette è già in pista a rigirare la pasta per la cena, che poi scola direttamente nel lavandino. 

La cavistica del T28 è ancora appiccicosa della birra dell'ultimo concerto prima dell'estate, qualcosa funziona, molto altro no, non si trova quello che si cerca, si cerca quello che non si trova... insomma, i soliti scleri che ci calano, dopo la pausa estiva, nel consueto, incerto clima da allestimento pre-concerto.
Gli Shitty Life, unica formazione classicamente rock della serata, fanno punk con il calendario fermo al 1979. Le cover dei primissimi Black Flag e dei Circle Jerks parlano chiaro, e non resta molto altro da dire: potenti, truci e sbrigativi. Talmente sbrigativi che i loro demo su bandcamp non hanno nemmeno la copertina!



I Younger and Better suonano un ottimo indie-rock virato post-punk, con uso massiccio di elettronica. Raggiungono il loro picco espressivo quando si lanciano in cavalcate siderali dal sapore kosmische...
 


I Teledrome fanno il loro, riproducendo in chiave più sporca e punk-rock i pezzi del bellissimo, omonimo album. La loro line-up prevede un batterista, una chitarrista, due tastieristi e... un bambino di quindici mesi che attende in furgone insieme a due baby sitter. Che formazione originale!



Quelli che più destano l'interesse dell'audience sono però i Brigade Bardot, misterioso trio esordiente formato da un cantante, un tastierista/programmatore e... un ballerino! Dopo aver ascoltato, per caso, il loro demo intitolato "Prima risoluzione strategica" la curiosità si annidava nei nostri animi di miscredenti: interessante, ma si tratta di una vera band o di uno strippo da cameretta? Fatto sta che il testo di "Anche l'abisso guarda" ci aveva folgorati con i suoi versi scintillanti, ricolmi di cristallina ispirazione: "E poi scese di colpo la sera in una manto cupo, lei avvolta nel vento in un cappoto scuro volgeva la testa in alto in un fare muto. Diceva: vedi sbiadite nel cielo le costellazioni? Vedi come germogliano nelle situazioni le contraddizioni? Come fioriscono nel ventre le rivoluzioni? E l'aria gelida ghiacciava, io privo di parole, lei ballava... Questa nave nauseata cadrà a picco - diceva - e il conflitto è il preludio danznante in fronte all'abisso. E nell'aria tra le parole gemeva il silenzio, io scorgevo nel suo sguardo l'erosione del tempo, l'età desolata e lo sgocciolio del millennio... Vedi, amore, non è questione di emozioni, la notte mi sanguina il naso perchè sogno insurrezioni, sogno masse agitate, fate ubriache, ballerine in punta di piedi sulle barricate e poi pietre scagliate su camionette incendiate. E nel cielo si alzava alta una luna nera, io tacevo e lei rideva e nel deflagrarsi della periferia le sue parole d'amore erano le mie lacrime di malinconia. Lei divceva: siamo fatti per marciare sulla testa dei re... ma io ho guardato troppo a lungo nell'abiso Madeleine, ed ora l'abisso guarda dentro me... Ma io ho guardato troppo a lungo nell'abisso Madeleine, ed ora l'abisso guarda dentro me...".

 
Appurato che i tre erano di Milano, e pure coinvolti nel giro delle occupazioni cittadine, abbiamo deciso di organizzare al più presto un loro concerto. La performance dei Brigade Bardot al T28 è stata... boh! Parlando di musica, quando non si trovano le parole per descrivere qualcosa (tipo adesso) è, secondo noi, sempre un fatto positivo. Anzi, illuminante. I Brigade Bardot non sono una band (più che un gruppo sembrano parte del pubblico) e il loro non è stato un concerto nella classica accezione rock: è stata piuttosto una situazione di condivisione. Siamo contenti di non avere foto o riprese della performance perchè nell'atmosfera c'era una strana, effimera magia che non si sarebbe fissata sui supporti magnetici... Ci rivedremo presto, Brigata Bardata!

I Brigade Bardot alle prese con una risoluzione strategica chiave: far stare appesa la bandiera.
La serata volge al termine e si entra nell'ultima, temibile fase dell'organizzazione di un DIY gig, ovvero: portare a dormire la band in tour. Si tratta della fase meno conosciuta da chi dei concerti è fruitore, ma per il promoter è la più ingrata, imprevedibile e sbilenca. Perchè spesso non si sa nemmeno dove sistemarli i gruppi o si sa già che il posto in cui riposeranno (ehm) non sarà di certo all'altezza delle loro già basse aspettative. 
In questo caso il posto - sebbene spartano - esiste, ma sono i canadesi a non avere le idee chiare: sono le tre di notte e ognuno vuol fare una cosa diversa, dal prenotare un albergo all'ubriacarsi sul marciapiede. Per la verità, uno che denota chiarezza d'intenti c'è: è il bambino di quindici mesi che se la dorme beato sul sedile posteriore del furgone!

Rena e Jamie dei Teledrome apprendono dove trascorreranno la notte...
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Postilla: ritorno al (retro)futuro.  
Sarà un fatto generazionale, ma l'isteria per gli anni '80 è ai massimi storici (soprattutto tra chi non li ha vissuti). I Teledrome sono una di quelle band che flirtano pesantemente con i suoni dei computer 8-bit e col synth-pop più formaggioso, ma basta fare una ricerca col tag "sythwave" o “retrosynth” su bandcamp per venire travolti da uno stormo di musicisti ossessionati dal decennio maledetto. La cosiddetta retro-wave è il fenomeno del momento: musica elettronica religiosamente devota ai suoni delle tastiere Korg e Roland degli anni ’80, ispirata all'italo-disco, alle colonne sonore dei coin-op e in generale a tutta l'estetica di plastica dell’epoca. L'effetto  trompe l'oeil è totale: dai titoli dei pezzi al lettering utilizzato, dalle composizioni grafiche ai finti segni dell'usura (!) delle copertine, tutto concorre a teletrasportare l'ascoltatore indietro di trent'anni.
La produzione retro-wave è foltissima e oltremodo kitsch, ma c'è un sottogenere che preferiamo, che è quello delle finte soundtrack da b-movie anni '80, che ci riporta a quando gli effetti speciali digitali non esistevano e il film di serie zeta non erano compiaciute parodie di se stessi o casi di sterile citazionismo, ma soltanto i prodotti di un cinema povero e un po' pedestre; pellicole che finivano per essere incredibilmente evocative proprio a causa degli spazi che i limiti tecnici lasciavano all'immaginazione. 
Post-atomici, thriller metropolitani, droga-movie, noir fantascientifici, film d'azione, slasher, fantasy... nessuno dei sottogeneri sub-cinematografici degli anni '80 viene tralasciato dai moderni elettro-musicisti nostalgici, nemmeno il porno!
Il francese Perturbator ci trasporta in un'atmosfera da sotto-Blade Runner con il suo "Nocturne City", ipotetica colonna sonora di un noir cyberpunk ambientato in una metropoli del futuro: “Spero che questo trip vi trascini in una visione onirica: chiudete gli occhi e schiacciate play, e godetevi questo viaggio nelle vie più oscure della fittizia Città Notturna”. Sembra una banalità, ma, tutto sommato, il gioco funziona!



Jake Freeman alias Protector 101 si cimenta invece nel genere post-atomico scrivendo la colonna sonora dell’immaginario "Wastelands", una storia d'amore mai girata in uno scenario à la Mad Max: “Dopo l'olocausto nucleare, un uomo e una donna devono combattere per sopravvivere su un pianeta tossico che una volta conoscevano come Terra. Venti radioattivi, acqua contaminata e bande feroci hanno reso il mondo un posto intollerabile. L'anno è il 2099. Queste sono il Wastelands”. Insomma, le premesse per un patetico action-movie di serie Z ci sono tutte, ma l'ambientazione da dopo-bomba, per chi è stato accompagnato verso l’età adulta mano nella mano da Kenshiro, serba pur sempre il suo fascino. Wastelands, se vi interessa, viene venduto in formato cassetta (beh, ovvio!), ma confezionato in una elegante custodia da vhs anni ’80, di quelle di plastica sagomata che ci ricordano i polverosi video noleggi dell'era pre-dvd...

 
A proposito di videocassette, passiamo a VHS Glitch, il cui nome fa riferimento agli improvvisi sfarfallamenti dell’immagine (glitch) tanto "cari" a noi che siamo cresciuti maledicendo le fottute vhs e i fottuti videoregistratori, (che erano soliti masticarne il nastro senza un perché). VHS Glitch ci propone la colonna sonora di una specie di sotto-Robocop chiamato “Evil Technology”. La trama sembra più avvincente rispetto a quella di Wastelands:  a New York le principali aziende tecnologiche si incontrano per la costituzione di una società segreta chiamata Neotech Corporation che metta a punto  un software in grado di controllare le menti dell’intera popolazione mondiale. Nel frattempo, da qualche parte a Tokyo, una società clandestina sta portando a termine un progetto per combattere la Neotech Corporation. Il progetto è stato inserito in un videoregistratore (!), programmato per far partire una vhs in una data sconosciuta (!!). Il nostro conclude sibillino: “ Today is the day, a couple of glitches and it will happen. VHS Glitch is here, the war is ready. END OF TRANSMISSION”.

 
Dicono che il modo migliore per gustare questa musica sia di lanciarsi in piena notte su un'autostrada deserta e premere play. In tal caso, non serve la Delorean di Ritorno al Futuro, va bene anche una bici: vi tele-trasporterà ugualmente nel 1987. Ma per dissipare l'illusione, fermiamoci ai bordi della strada a fumare una sigaretta e riflettiamo: tutto questo è realmente un ritorno al passato? Ovvero: negli anni '80 esisteva davvero questa musica? La risposta, soprattutto per chi quegli anni muscalmente li ha vissuti, è: no. Gli album di italo-disco, quelli di musica elettronica e le colonne sonore dei videogiochi di quegli anni erano un'altra cosa, non erano nè meglio nè peggio, semplicemente suonavano molto diversi dalla retro-wave. In poche parole: non erano così anni '80. E' assurdo, ma... vero! (qualcuno ha descritto il paradosso meglio di noi in quest'ottimo articolo). 
La retro-wave è un intreccio di citazioni e rimandi che si prende gioco dei nostri ricordi, e alimenta la nostalgia per un'epoca che non è mai esistita: i retro-musicisti romantici manipolano il passato, lo filtrano accuratamente isolandone gli ingredienti iconici e lo aggiornano alle mode del presente. Un processo perlopiù inconsapevole che (classico topos dei viaggi nel tempo) modifica il passato finendo per modificare anche il presente, o meglio, deviando la percezione che del passato ha il nostro presente. Ma lasciando perdere i paradossi spazio-temporali, proponiamone uno culturale: esisterà mai un'epoca senza passati da resuscitare?


07/09/15

[we talk about...antispecism!]
TILIKUM! Bollettino per la liberazione animale, umana e della terra
[Pep] "Tilikum è il nome di un'orca islandese che ha opposto resistenza aggressiva ai propri allevatori: non stupisce che questo nome sia quello del bollettino antispecista del gruppo “La Lepre per la liberazione animale, umana e della terra”, che il K.C.H. segnala ai propri lettori. Il baricentro del progetto appare quindi essere il tema della “restituzione di soggettività” agli esponenti del mondo animale non umano (ri-letta primariamente come riappropriazione di soggettività autonomamente agita da parte di loro stessi), in concomitanza con i progetti di soggettivazione resistenziale interni al mondo degli animali umani. I due mondi, rivelantisi in realtà uno, segnato da tensioni oppressive, sono oggi attraversati da sempre più frequenti dinamiche di alleanza, variamente agite. Colpisce alla lettura della rubrica “Animali ribelli. Storie di resistenza animale” la coestensività strutturale tra le dinamiche di oppressione/resistenza rispetto alla problematica dei diritti del “mondo animale” e di quello umano: contestando Tilikum il tentativo di reificazione benigna della soggettività “diversa”, che attraversa la nostra società e caratterizza in modo evidente tutte le forme di antispecismo riformista. Colpisce al riguardo l'episodio di Kerala (gennaio 2015) : “Elefante fuori controllo. Nel titolo del video si parla di un elefante matt-. Spesso la violenza di chi si oppone alla propria schiavitù non viene letta per quello che è, resistenza, ma viene fatta passare come follia. Se lottare per la propria liberazione è follia, allora ogni animale umana ribelle è anche folle!”: atto ad evidenziare il nesso tra la nozione di follia e qualsiasi devianza attiva. Nel proprio Credo James Graham Ballard, sottolinea il portato artistico di ogni devianza, confermando il nesso strutturale tra dimensione artistica e dimensione radicale, ed evidenziando lucidamente il gesto dell'elefante del Kerala, quale ennesimo atto di insensata bellezza: “Credo nella pazzia, nella verità dell'inesplicabile, nel buon senso delle pietre, nella follia dei fiori, nel morbo conservato per la razza dagli astronauti di Apollo. Credo nel nulla. Credo in Max Ernst, Delvaux, Dalì, Tiziano, Goya, Leonardo, Vermeer, De Chirico, Magritte, Redon, Durer, Tanguy, Fateur Cheval, Torri di Watts, Böcklin, Francis Bacon e in tutti gli artisti invisibili rinchiusi nei manicomi del pianeta” (da Re/Search edizione italiana “J.G.Ballard”, Shake Edizioni Underground, 1994).
Altrettanto significativo l'articolo sull'islamofobia: portata avanti dai leghisti odierni e dai conservatori essa consiste nell'attivare socialmente una dinamica proiettiva, onde purificarsi fittiziamente delle proprie iniquità' assegnandole all' immagine “straniera” del migrante di religione islamica. Nello specifico versante antispecista di tale processo sociale l'elemento posto sotto accusa è la “macellazione “Halal” giudicata peggiore di quella “Occidentale” che andrebbe invece legittimata. Ma come scrive la pensatrice ecofemminista Luisella Battaglia, citata da Tilikum: “La nostra macellazione, invece, è un atto meramente tecnico, obbedisce a preoccupazioni funzionali e a finalità di natura pratica, la sua etica mira a garantire l'osservanza di talune regole minimali, come la riduzione della sofferenza evitabile a garanzia della salubrità delle carni; non rinvia ad alcuna fede o a sistemi di valori, vuol solo essere efficiente e in ciò risiede la sua laicità. Perchè dovremmo considerarla moralmente superiore? Il problema nasce dal fatto che oggi la macellazione rituale è inserita in una logica commerciale e industriale che obbedisce a parametri di efficienza e produttività, dove la difficile compatibilità tra rispetto della ritualità e mercato è destinata inevitabilmente a provocare negli animali sofferenze aggiuntive”.
Per cogliere la dimensione anti-istituzionale del problema si veda l'interessante testo sulla Fao: lo stesso Franco Basaglia, tra i punti di riferimento del pensiero anti-istituzionale, così si esprime, nel 1971, sulle istituzioni, con particolare riferimento alla FAO: “La malattia, la devianza, la fame, la morte, devono diventare altro da ciò che sono, perché la contraddizione che esse rappresentano possa risultare una conferma della logica del sistema in cui sono inglobate. Alla morte si può allora rispondere con la scienza della morte, alla fame con l'organizzazione della fame, mentre la morte resta morte e la fame, fame; non esistono risposte ai bisogni chi che si tenta è sempre e solo la loro organizzazione e razionalizzazione. La Fao, come risposta ideologica alla realtà della fame, lascia inalterata la realtà dell'affamato, lasciando inalterato il processo che produce insieme fame e abbondanza. Così l'organizzazione della malattia non è la risposta all'ammalato e chi tenta- in questo contesto- di rispondere al bisogno primario (chi tenta di rispondere alla malattia e non alla sua definizione e organizzazione) viene accusato di negare l'esistenza del bisogno stesso, quindi di negare l'esistenza della malattia nel momento in cui non la riconosce nel “doppio” che ne è stato fabbricato. E' attraverso questo processo di razionalizzazione e organizzazione dei bisogni che l'individuo è privato della possibilità di possedere sé stesso (la propria realtà, il proprio corpo, la propria malattia). [...] In questa dinamica l'individuo non può arrivare a possedere la propria malattia ma vive la sua collocazione nel mondo come malato; vive cioè il ruolo passivo che gli viene imposto e che conferma la frattura fra sé e la propria esperienza”.
Così si esprime oggi puntualmente Tilikum: “Nel rapporto [Fao World Livestock 2011] importante è l'obiettivo di rendere più efficienti i sistemi zootecnici, soprattutto quelli dei paesi in via di sviluppo e le proposte, guarda caso, coincidono con quelle adottate nei grandi allevamenti intensivi occidentali: una miglior salute degli animali raggiunta tramite abuso di antibiotici e farmaci, una miglior gestione dei pascoli equivalente a un minor impiego di terreno a parità di animali allevati, una miglior collocazione dei prodotti sul mercato che richiede infrastrutture e tecnologia più avanzata”.

Chi volesse saperne di più e leggere il bollettino, faccia un salto qui.

30/08/15

[In questa quinta puntata del nostro tour-report accadono fatti inesplicabili: un aereo vola da una parte all'altra del mondo in poco meno di un'ora, un furgone viaggia ininterrottamente per due giorni e due notti dal Polo Nord alla capitale, il marxismo-leninismo è redivivo tra i giovani russi e a Mosca è attiva una colonna punk delle Brigate Rosse... Ma non preoccupatevi: tutto alla fine troverà una spiegazione. Buona lettura!]

Capitolo 5:
Sabato 30 maggio, da Yakutsk a Mosca, e concerto. 
 
Un russo con i capelli rossi, raccolti in sparuti dreadlocks, saluta un gruppo di italiani vestiti di nero davanti all'aeroporto di Murmansk. Sale sul furgone ed accende una sigaretta, perdendosi per qualche secondo nel mistico panorama polare, così irreale nelle prime ore del mattino. Poi torna alla realtà, mette la prima e parte. Due giorni e 1.900 chilomteri dopo lo stesso russo è davanti ad un altro aeroporto, quello di Mosca. Ha dormito poco e fumato molto. “Ciao kakao, Denis!”. Nove italiani mezzi rincoglioniti fanno irruzione sul suo furgone e collassano sui sedili...
Partiti alle sei del mattino da Yakutsk, abbiato sorvolato per sette ore l'intera estensione della Federazione Russa e adesso a Mosca sono le... sette del mattino. Assurdità dei fusi orari sovietici! Dopo una dormita interlocutoria (non sappiamo bene se e per quanto dobbiamo dormire), usciamo a fare un giro. Mosca nella sua grigia, austera maestà ci è familiare ormai: abbiamo forse finalmente fatto amicizia con questa inospitale megalopoli?
Prendiamo un caffè d'asporto e sostiamo su Zemlyanoy Val osservando la gente che passa. Per le strade di Mosca tutto sembra proteso verso il futuro: aleggia un'atmosfera frizzante, una certa aria di novità. In pochi anni qui è cambiato molto. Forse tutto. Pare che Mosca stia perdendo rapidamente quella scorza ruvida di un tempo, e con essa, forse, anche parte del suo fascino...

 
I K. live in Mosca al ristorante Вермел
Suoniamo in un ristorante del centro (i concerti nei ristoranti qui sono un grande classico). Per arrivarci attraversiamo una zona piuttosto borghese della città: un'occasione per saggiare come tutto ciò che riguarda gli affari e il lusso sia penosamente uguale ad ogni angolo del mondo: le solite boutique dei soliti stilisti, le solite insegne delle solite multinazionali, la solita gente elegante ed esibizionista che profuma di arrivismo e di loschi maneggi. Siamo molto lontani dai sobborghi russi degli adolescenti in tuta che scolano le lattine di Jaguar sulle panchine.
Mentre sostiamo di fronte al ristorante veniamo riconosciuti da un'orda di punk che vuole condividere con noi alcuni temibili incroci alcolici a base di vodka. Malgrado la simpatica ospitalità dei locali, la serata langue e l'affluenza non è un granché: questa sera ci sono altri quattro concerti punk sparsi per Mosca, e di band decisamente più note della nostra. La tendenza alla ridondanza tipica del turbo-capitalismo occidentale ha preso piede anche qui, maledizione.
Prima di noi si esibiscono gli Skulls, Angels and Sluts, una buona band di h.c. melodico anni '90 (che però assomiglia troppo ai Lag Wagon... ehi, siamo pur sempre in Russia, ragazzi!) e i Панк-фракции Красных бригад. Questi ultimi si rivelano una gradita sorpresa. Sembrano usciti da una capsula spazio temporale: suonano e appaiono, in tutto e per tutto, come una vecchia band di rock sovietico. Posa? Devozione sincera? Fortuita coincidenza? Панк-фракции Красных бригад  signica “La Divisione Punk delle Brigate Rosse”. Il riferimento, appuriamo, è proprio alle nostre Brigate Rosse: lo testimonia lo striscione affisso dietro al palco, che è una rivisitazion del famigerato simbolo del gruppo terroristico. Nessuno in Italia avrebbe il coraggio di utilizzare questo nome e questa iconografia per la propria punk band: una roba troppo impegnativa, troppo pericolosa, troppo greve. Inopportuna, insomma. Forse un po' come il nome "Kalashnikov" per un russo? Comunque sia, Vova, il chitarrista/cantante della band è un personaggio unico: anche lui non ha i denti davanti, come tanti altri suoi colleghi, e suona come pervaso da un demone, in bilico tra cialtroneria e profonda ispirazione. O molto più probabilmente è solo ubriaco marcio. Ad ogni modo, ci colpisce perchè non è il solito teenager russo che fa di tutto per sembrare occidentale.
 

Vova
Detto questo, c'è qualcosa di strano ed incomprensibile ai nostri occhi in questo recupero, qui, nell'ex-Unione Sovietica, dell'iconografia comunista; in quest'uso spregiudicato di simboli così compromessi, come la falce e il martello, da parte di questi giovani musicisti dall'aria sognante, dall'approccio un po' naive e situazionista, dalle pose decadenti, che sempre più spesso incontriamo ultimamente da queste parti. Chiediamo al nostro vecchio amico Maksim che cosa significhi tutto questo. “Mmmh... è solo romanticismo!” ci risponde. Chiediamo allora chiarimenti al romantico Vova in persona, che scende nei dettagli... "Dunque... la band si è formata nel deumila e dodici. L'idea per il nome è nata dal fatto che un mio amico mi ha detto che in Italia le Brigate Rosse avevano ripreso l'attività negli utlimi anni. In quel periodo lavoravo in fabbrica ed ero talmente povero che a volte non avevo i soldi per mangiare. Mangiavo le mele sugli alberi alle fermate dell'autobus. Ero quindi molto arrabbiato per tutto, per la politica del governo e per il modo con il quale la ricchezza viene distribuita tra la popolazione. Questa era, ed è, la vita nella capitale del nostro paese, dove puoi vedere ovunque gente stanca, povera e senza un tetto sotto il quale vivere, e sull'altro lato della strada ricchi in auto di lusso e un sacco di poliziotti. In quel periodo ho scritto una canzone che parlava di Berlusconi e di come avrebbe potuto fare la fine di Aldo Moro, e del fatto che non tifavo più il Milan come ai tempi della scuola; ho visto Berlusconi sul giornale stringere la mano di Putin: sembravano due idioti. Quella canzone l'ho intitolata “La canzone delle Brigate Rosse”. Di lì a poco un artista di Mosca di nome Anton mi ha chiesto se volevo mettere insieme una band con lui e l'abbiamo chiamata “Brigate rosse”. Poi ho pensato che fosse un nome troppo banale così abbiamo aggiunto “La divisione punk delle Brigate Rosse”. Qui in giro, la situazione a livello culturale e musicale non era un granché, c'era un sacco di merda nelle teste delle persone di ogni classe sociale, quindi era il momento adatto per uscirsene con una band con questo nome. Volevo davvero distruggere tutto quello che mi stava intorno, ma... niente sangue! Utilizzando solo chitarre e microfoni!...”.

La Colonna Punk delle Brigate Rosse
Chiediamo a Vova il significato dell'uso che la band fa della simbologia comunista e, più in generale, dei suoi legami con il periodo sovietico: “Che cosa posso dire dell'era sovietica? Ci sono nato. E comunque ancora oggi non riesco a capire che cosa è la Russia... Ad ogni modo, penso che ci siano state tante “Unioni sovietiche” tra il 1918 e il 1991...  e che nel periodo tra il 1905 e il 1924 si respirasse davvero un'aria nuova e la gente vivesse una grande spinta verso il futuro. Ci volevano energie nuove per distruggere il regime degli Zar, non si poteva aspettare più a lungo. Credo che il primo periodo dell'Urss sia stato davvero grande. Poi, con la morte di Lenin, sia iniziata una parabola discendente. Posso tutt'ora constatare che gli ideali comunisti sono stati traditi in tutte le epoche successive a quella: quando parlo con persone anziane, anche con i miei parenti, vedo che non sanno nulla della teoria del Commusimo, non capiscono il senso della lotta di classe, perché l'elite politica dell'URSS, mentre se la spassava in una marea di privilegi, li ha fottuti con una bugia dietro l'altra. Ed ora noi, ortodossi marxisti-leninisti, siamo costretti a difendere le nostre idee di fronte ai detrattori del comunismo, per colpa di un branco di maiali che dalla rivoluzione del 1917 ha tratto soltanto il proprio profitto personale”.
Vova sarà pure un romantico, ma sembra avere le idee chiare... malgrado quell'aria svampita e stralunata ha i piedi ben saldi al terreno! Comunque sia, l'ultimo disco dalla Панк-фракции Красных бригад è una manna dal cielo per noi amanti del vecchio punk-rock sovietico! 


http://pfkb77.bandcamp.com/album/2015

Quando attacchiamo a suonare, la sala, da deserta, si popola inaspettatamente. In queste situaizoni interlocutorie cerchiamo di fare del nostro meglio, per inchiodare davanti al palco tutto il risicato pubblico presente! 

 
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Cazzo?
Finiamo la serata a casa del disegnatore Pepka Mulinov assieme a Denis, Anya, Nadia ed altri amici e amiche. Attraversiamo la notte moscovita per arrivarci, che è fatta di vialoni infiniti e tutti uguali, interminabili. Pepka abita in un palazzone sovietico, uno di quei grigi menhir che disegnano l'inconfondibile skyline delle città russe. Ci accomodiamo dove riusciamo in cucina, una stanzetta congestionata da libri, quaderni d'appunti, stoviglie impilate ed oggetti dei più disparati, come ad esempio una vecchia "lavagna magica" sulla quale Denis, con enorme perizia, scrive cazzo. Pepka ci offre una scodella di Okroška, una zuppa fredda di cetrioli, ravanelli e aneto (una specie di gazpacho alla russa) ed apre alcune bottiglie di tragico vino. A tal proposito ricordiamo un episodio di quando incontrammo Pepka a Milano, l'estate scorsa: ci trovavamo in uno squallido bar cinese e lui ordinò una bottiglia di vino, pensando che in Italia il vino fosse buono ovunque. Gli arrivò del vinaccio velenoso fatto con le polverine in una bottiglia con il tappo a vite. Lui che aveva sentito dire che il vino buono ha il tappo di sughero infilò sicuro il cavatappi dentro il tappo metallico, girando e tirando con fare da sommelier... 
L'atmosfera delle cucine sovietiche ha qualcosa di speciale: la kuchnja era, ai tempi dell'Unione Sovietica, la parte della kommunalka in cui la gente si incontrava, parlava, litigava, dove si decidevano tutte le cose e si facevano apertamente tutti quei discorsi sulla politica e sui potenti che non conveniva fare altrove...


Nella cucina di Pepka


Manca sale nell'orkoska, presidente?
Anche qui, nella cucina di Pepka, ci pare di respirare quell'aria un po' bohemienne e clandestina di un tempo. O forse è solo un effetto collaterale del vino? A proposito: notando lo sbilanciamento tra cibo e alcool (catastroficamente a netto favore del secondo) cerchiamo di correre ai ripari, dovendo salire domattina presto su un aereo per Kiev. 
Mentre ci congediamo, notiamo un libro appoggiato ad una catasta di altri libri di fianco all'ingresso. Si tratta di un volume illustrato sull'Unione Sovietica degli anni '80: una retrospettiva fotografica sulle fase discendente dell'era Breznev e i fatidici anni della Perestroijka. Lo sfogliamo con curiosità. Gli anni '80 furono decisivi per il destino dei russi: anni di agonia ammantati di illusioni e speranze. E' triste pensare che chi ha creduto in quelle speranze e in quelle illusioni abbia definitivamente perso la partita (e non abbia ricevuto nemmeno un premio di consolazione): quanti sacrifici inutili, quante vite buttate in nome di un ideale, spazzato via dalla sera alla mattina... “Se vi piace tenetevelo. Io l'ho trovato nella spazzatura qua sotto!” dice Pepka. Beh, simbolico: un libro trovato tra i rifiuti che racconta un'epoca che è finita dritta nella pattumiera della storia! Dopo venticinque anni dalla caduta del Comunismo di quella Mosca che vediamo nelle foto del libro, di sicuro, restano le case come quella di Pepka, quelle torri livide e indifferenti che vegliano sul popolo russo ad ogni latitudine e longitudine della Federazione. Ah! Anche lo scricchiolio sinistro dell'ascensore del condominio di Pepka, che ci porta gemendo al piano terra, proviene di certo da quell'epoca!   

Moscow mist
 
Postilla: il Club degli Scacchisti Punk di Mosca.
In Unione Sovietica, ed ancora oggi in Russia, il gioco degli scacchi è uno "sport" nazionale. Non viene consideato soltanto un passatempo, ma un'attività ad alta valenza educativa. Tant'è che alle pareti dell'aula della scuola di Yakutsk nella quale abbiamo dormito, erano appesi uno di fianco all'altro i ritratti di tutti i grandi campioni di scacchi del secolo scorso, mentre all'ingresso dell'istituto si trovava una scacchiera gigante. 
La prima volta che venimmo in tour in Russia, l'amico Sharapow ci portò in un bar di San Pietroburgo e, tra una birra alla banana e l'altra, ci sfidò a scacchi, naturalmente sconfiggendoci in modo patetico. D'altronde, in Russia tutti e tutte sanno giocare a scacchi: Lenin era grande appassionato di questo gioco e ne volle fare un sport di massa per tutte le età e per tutte le classi sociali. Negli anni venti fu varato un piano quinquennale per la diffusione del gioco degli scacchi e fu commissionato al regista Vsevolod Pudovkin un film-doscumentario intitolato La febbre degli scacchi, che all'epoca ebbe una certa popolarità. Il funzionario Nikolai Krylenko, a capo della sezione scacchistica del Consiglio supremo per l'educazione fisica dell´Urss, si applicò affinché il numero di giocatori di scacchi nel paese crescesse esponenzialmnente. Dal punto di vista ideologico infatti, gli scacchi non avevano connotazione di classe e offrivano un passatempo sano al cittadino sovietico che, nel tempo libero, era perlopiù impegnato a «fabbricare liquori, berli e a litigare con altri ubriachi».
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Dopo la seconda guerra mondiale, il gioco degli scacchi, già metafora bellica, divenne uno dei campi di battaglia sullo sfondo dei quali si combattè la Guerra Fredda: nel 1945 una partita Usa-Urss giocata via radio, premiò i sovietici e ne sancì la supremazia fino allo storico match nel 1972 di Reykjavik tra Boris Spassky e Bobby Fischer, vinto da quest'ultimo.

Mi scappa una partita in un'aiuola!
Il nostro Denis, durante gli interminabili viaggi in furgone, ci ha raccontato di una sua simpatica iniziativa legata agli scacchi: il club degli scacchisti punk di Mosca!
Tempo fa, quando facevo il custode di una sala prove, io e un'amica ci trovavamo lì e giocavamo regolarmente a scacchi. Poi la sala prove ha chiuso e così non abbiamo avuto più un'occasione per giocare. E' allora che abbiamo fondato il “Club degli Scacchisti Punk di Mosca”... In quel periodo, alcuni amici di Kiev mi hanno invitato a trascorrere del tempo da loro per gustare del buon cibo ucraino e, saputo dell'esistenza del club, per giocare e dimostrare che l'unico modo nel quale i punk russi possono combattere contro i punk ucraini è... a scacchi! Il club ha avuto fin da subito un inaspettato successo: da Minsk, da Grodno, da San Pietroburgo mi hanno scritto amici e conoscenti per aderire al club, ma io ho risposto: ehi, fate un punk-club di scacchi nelle vostre città e venite a sfidarci! Così è nata quest'idea di incontrarsi tra punk provenienti da varie città e passare del tempo insieme davanti ad una scacchiera, bevendo qualche birra, raccontandoci storie e ascoltando buona musica.
Onestamente i membri del nostro punk-club sanno giocare piuttosto male a scacchi, ma non vedo nessun problema a riguardo: vale lo stesso discorso che si fa per la musica punk; la passione è più importante delle competenze e delle capacità. Un sacco di pratica può dare competenze, ma dubito possa dare la passione. Quello degli scacchi è gioco vecchio e bellissimo: il punk non è solo avere uno stile bizzarro e fare casino ai concerti, è anche idee, intelligenza, creatività... quindi perché non si può immaginare una declinazione punk del gioco degli scacchi?   
Prima di ogni match del club, annunciamo gli eventi con slogan assurdi e divertenti tipo “La politica non ci interessa, noi vogliamo soltanto uccidere il re!” oppure “gli atleti saranno squalificati per una percentuale di alcol nel sangue inferiore a quella permessa”. Mi è capitato di guidare per gruppi stranieri (come gli Active Minds, dall'Inghilterra) che amano il gioco degli scacchi e un giorno mi piacerebbe organizzare anche incontri internazionali. D'altronde è facile mettere in piedi un match di scacchi punk: tutto ciò che serve è un tavolo e almeno due giocatori punk! Più facile che organizzare un concerto o suonare in una band!”.

Il club degli scacchisti punk di Mosca in azione