15/03/07

[We talk about...]
MUSIC! (again!)
Parlare di pop-music non è semplice. Alcuni ci riescono molto bene. Eccone due esempi:…
* Simon Reynolds - Post-Punk (ISBN 2006). Un volume di dimensioni ragguardevoli, una specie di bibbia del post-punk anglofono (ma non solo) e nel new pop degli anni ‘80. Lo stile romanzato, mai noioso, la ricchezza di aneddoti e la precisione filologica ne fanno uno dei migliori esempi di manuale pop/rock. La prima parte del libro passa in rassegna quelle band che sono state archiviate sotto l’etichetta un po’ vaga, ma molto suggestiva, di “post punk”, e che hanno incarnato uno dei momenti artisticamente più sconvolgenti che la musica pop abbia mai conosciuto: dal raggae-punk primitivista delle Slits, alla dance stralunata dei P.i.l. di Johnny ex-Rotten, dal funk-punk politico di Pop-group e Scritti Politti, alle stramberie proto-elettroniche dei primi Human League e Cabaret Voltaire, dal rock scarno ed isolazionista dei Joy Division fino al terrore sonoro dei Throbbing Gristle, passando per l’art-rock eclettico dei Tuxedomoon e il nichilismo drogato della no-wave newyorkese… e poi: le trovate innovative e iconoclaste dei fonici più audaci, le geniali provocazioni dei produttori, le scombiccherate avventure delle indie-label più dadà… un’epopea ai confini della musica, tra personaggi poco rassicuranti, che, con poche (o nulle) conoscenze tecniche, hanno il cambiato per sempre il volto della musica pop, portando alle estreme (e più feconde) conseguenze l’immortale motto punk del “tutti possono farlo”.
La seconda parte, dedicata alla corrente new romantic, al gothic anni ’80 in tutte le sue diramazioni, allo ska della 2-Tone, con una puntata nell’h.c. progressivo americano (Black Flag, Husker Du), è altrettanto interessante, grazie alla puntuale descrizione dei retroscena solitamente trascurati dalla letteratura musicale: gli espedienti pubblicitari dei produttori, gli esperimenti dei fonici, l’utilizzo spesso avventuroso ed empirico delle nuove tecnologie, le strategie degli artisti, il folklore giovanile…
Il titolo originale del libro è molto più significativo rispetto a quello italiano: “Rip it up and start again” (il titolo di una canzone degli Orange Juice): “Straccia tutto e parti da capo”. Un ottimo consiglio!

* Julian Cope – Krautrocksampler (Lain 2005). - Ci sono voluti dieci anni perché qualcuno curasse la traduzione italiana del leggendario manualetto di Julian Cope! Nomi inquietanti e storie misteriose: il collettivo Amon Duul I e la sua costola eretica Amon Duul II, il non-gruppo dei Faust con le loro sinistre radiografie, il raga-rock a-ritmico dei Can, le musichette zuccherose dei Cluster, l’orchestra pietrificata in una sola nota diretta da Klaus Shultze, il delirio di onnipotenza cosmico del cospiratore Rolf-Ulrich Kaiser… Krautrocksampler è una disordinata, ma (paradossalmente) esauriente panoramica sulla storia del cosiddetto kraut-rock, dall’etichetta che i giornalisti inglesi del tempo appiccicarono (con tono dispregiativo) sulla produzione rock tedesca dei primi anni ’70. Il kraut-rock non è un genere musicale (raccoglie gruppi anni luce distanti tra loro!), ma una filosofia della musica, un culto per iniziati: è una scuola di creatività musicale, dalla quale moltissimi artisti del futuro attingeranno (dal moderno post-rock al glitch-pop, dal post-punk alla musica new age!). Cope ripercorre, attraverso l’analisi di una manciata di dischi folli e ricostruzioni storiche esilaranti, la parabola della Musica Cosmica Tedesca, che potremmo definire una commistione ad alto tasso lisergico di avanguardia e attitudine pre-punk. Krautrocksampler è una lettura essenziale non solo per rivivere uno dei momenti chiave della storia del Rock Creativo, affollata di personaggi alieni e visionari, ma anche per lo stile pazzo con il quale è redatto, zeppo com’è di neologismi ed invenzioni entusiasmanti: una scrittura che trasuda passione infinita per la musica! [Puj]

13/03/07

[We talk about…]
P-U-N-K !
[Chi segue i Kalashnikov dai loro esordi, ha ben presente quella frasetta che ogni tanto è comparsa su dischi, volantini etc…etc… ovvero: “Perché essere punk se puoi essere te stesso?”. Una fugace polemica contro il punk inteso come moda, come divisa, come stile di vita superficiale e come genere musicale codificato, che all’epoca ci sembrava attuale. Quella domandina retorica non è nostra invenzione - lo abbiamo sempre sottolineato quando è capitato che qualcuno ce lo chiedesse: si tratta dell’esordio di un articoletto comparso sul n. 1 di Menti Sconvolte (settembre 1983), fanzine della provincia di Udine, a firma di una misconosciuta band dell’epoca, i Nagasaki. Non credo di aver mai riesumato quell’articolo; oggi è il momento di farlo: aldilà delle ingenuità e di alcuni aspetti anacronistici, il succo del discorso è piuttosto attuale. Credo più oggi di quanto lo fosse allora…]
Perché essere punk quando puoi essere te stesso? Punk noi pensiamo sia una divisa per colmare il vuoto di menti atrofizzate. Menti imprigionate da ciò che viene loro imposto sin dai primi giorni di vita. Non vediamo l’utilità di voler forzare la propria personalità. Ci pare assurdo scimmiottare personaggi che si sono arricchiti alle spalle di chi ha prestato loro attenzione. Noi siamo invece convinti che situazioni come l’autogestione siano assolutamente necessarie per la creazione di qualcosa di nostro, lontano da cose in cui non crediamo. Oggi il punk è un etichetta fine a se stessa e niente più. Una definizione di comodo dietro la quale rifugiarsi, nascondendo la è propria ignoranza e mancanza di idee positive. Un’orrida maschera dietro la quale molta gente spera di rifugiarsi, trovando un’ipotetica quanto utopistica libertà. La libertà dello struzzo, il quale nascondendo la propria testa nella sabbia crede di estraniarsi, trovando una maggiore sicurezza. Ogni significato che fu attribuito alla parola “punk” ha ormai perso ogni credibilità Ti guardi intorno e vedi una cresta che spunta da una macchina pagata 10 milioni, senti in giro di punk impegnatissimi che si fanno un mese e passa di vacanza a Londra (capitale riconosciuta del punk… merda), ti dicono “io sono contro ogni droga!” e li ritrovi a qualche festa stupidissima che si fanno una canna o sniffano trielina, si dichiarano contro la violenza e parlano di pacifismo, ma sono sempre pronti a fare a pugni, cosa questa che dà loro la possibilità di dimostrare la propria mascolinità. Da parte nostra, continueremo a parlare di pacifismo, non-violenza ed anarchia, ma rifiuteremo sempre di essere catalogati.
[Adoro scritti come questo! Nella loro ingenuità rappresentano un momento di crescita importante, quello della negazione. Negare è importante, perché cambiare è importante: quallo che la gente chiama “coerenza” è un fantoccio, uno di quei valori che tutti nella società moderna sbandierano come ebeti perché di moda, come l’essere “vero”, “semplice” o “spontaneo”. Stronzate! L’esistenza è un percorso senza capolinea; il cambiamento fa parte del gioco, è vita. Tanto è difficile cambiare dentro, in profondità, quanto è facile cambiare nella scorza, nell’aspetto, nelle frequentazioni, nel tipo di musica che si ascolta. Cambiare fuori può anche non servire a nulla, ma chi lo fa non è incoerente: è in grado di affrontare criticamente l’esistente, dietro alla maschera, cerca faticosamente di cambiare quello che ha dentro, sforzandosi, almeno per se stesso, di essere migliore. Il punk è moda? Bene, in quanto tale ognuno è libero di indossarla e smetterla quando vuole, se quella moda non rispecchia più idee o valori che prima sembrava veicolare così bene. Se poi è anche altro, tanto meglio, w il punk! Nella copertina della propria cassetta autoprodotta, gli Wops (gradissima e misconosciuta h.c. band veneta) nel 1982 scrivevano…]
Il punk non è morto: è stato masticato, inghiottito e riciclato dall’industria discografica e dalla stampa, trasformato in un luccicante fenomeno di costume, con le sue stars, i suoi riti e le sue vittime. Dalla spontaneità dei sentimenti alla costruzione di un look e di un atteggiamento. Si è arrivati ad un punto tale di rincoglionimento che una punk band è costretta a proporsi secondo certi schemi per poter offrire credibilità e sperare di ottenere un minimo di riscontro. Tutti sono iperalternativi, iperanarchici, tutti sono incazzati e vogliono fottere il sistema. Che belli i bracciali borchiati punk, le A cerchiate dipinte sul giubbotto punk, le spillette degli Exploited comprate ai concerti punk… Sono questi i nostri simboli? Sono questi i nostri trofei? Sta nascendo un nuovo ghetto: dischi e demo-tapes vengono fatti per essere venduti esclusivamente da punx ai punx; i testi scontano l’aridità degli slogans della cultura televisiva del dopo ’77. Vengono usate le stesse strategie di classificazione, scelta e giudizio della stampa musicale che si vuole contestare. Si sta creando un ghetto, innalzando quelle stesse barriere che si dice di voler distruggere. Noi non siamo liberi. Se il punk è solo una moda, noi non siamo dei punks.
[All’epoca, dichiarazioni come queste erano all’ordine del giorno, tra le pagine delle fanzine, come nei dibattiti dei collettivi; oggi possono essere sorpassate nella forma, ma non nella sostanza. Togliendo “punk” e mettendoci un qualsiasi termine che indichi una qualsiasi cultura musical-giovanilistica il risultato non cambia. L’importante è essere vigili, farsi delle domande, essere, per quato è possibile, “ineffabili”, perché la dissidenza è anche non offrire al prossimo punti di riferimento per giudicare. Poi, il resto, è folklore o come dicevano i Raf Punk (anarco-punk band emiliana, per restare in tema!): “La solita minestra: il punk è vivo o morto? La risposta è: chi se ne frega!”. Puj]

06/03/07

[Video]
L’ASSEMBLEA RIMANE APERTA – Frammenti dall’occupazione dell’Università Statale di Milano (Kalashnikov collective / Epicentro Sismico Metropolitano 2006).
[Puj] Esattamente un anno dopo avere realizzato “Queste vetture non partono” (vedi sotto) rispolverammo la videocamera per un’impresa ben più ambiziosa della precedente: documentare l’occupazione studentesca dell’Università Statale di Milano. Nell’ottobre 2005, sullo slancio di un’ondata di sdegno contro l’allora ministro dell’istruzione Letizia Moratti gli studenti universitari diedero vita a brevi esperienze di occupazione/autogestione degli atenei: alcune videro una grossa partecipazione e raggiunsero una ragguardevole entità, altre s’infransero presto contro la generale indifferenza dell’apatica utenza studentesca. Noi, tutti ex-studenti ed alcuni proprio della Statale, sapevamo che un avvenimento simile in un università abulica come quella milanese, non era da lasciarsi sfuggire. L’ultima occupazione della Statale risaliva infatti ai primi anni novanta!
Malgrado lo sforzo profuso, a Milano l’autogestione ebbe vita breve: dopo l’entusiasmo iniziale, mancarono forze e idee per tracciare un percorso duraturo. Da parte nostra, il giorno dopo l’avvenuto insediamento studentesco, decidemmo di imbarcarci nel progetto, con buona dose di audacia, come al solito senza mezzi e con poche idee su come procedere. Per una decina di giorni gironzolammo per l’università con la videocamera, improvvisando interviste, riempiendo nastri di assemblee-fiume e, soprattutto, aspettando che succedesse qualcosa di interessante per vivacizzare il nostro filmino. Non è che alla fine fossimo molto soddisfatti: l’occupazione implose, si spense in silenzio con un sostanziale nulla di fatto, non ci furono scossoni, nei dieci giorni circa di autogestione non accadde niente di significativo; mancò dialogo con il personale accademico e mancò soprattutto il sostegno degli studenti estranei ai collettivi "militanti". Poi il nostro materiale, per quanto ci sforzassimo di mentire, era davvero pessimo! Chilometri di nastro che visionammo in soporifere sedute serali. La fase di montaggio fu travagliatissima: un gioco di incastri disperato nel tentativo di dare all’insieme una struttura prima narrativa, poi, visto il fallimento, almeno concettuale; ci colse l’imbarazzo di pendere verso un’interpretazione piuttosto che un’altra, di dare una lettura della vicenda troppo disfattista o, molto più semplicemente, di non riuscire a mettere insieme un qualcosa di decente.
Il nostro horror di serie B vide la luce intorno a febbraio: due mesi dopo la chiusura dell’occupazione, di essa erano svanite le tracce e si aveva l’impressione che gli stessi studenti che vi avevano partecipato attivamente, la ritenessero un’esperienza lontana, archiviata sotto la voce “vacanze in campeggio”. In questo clima un po’ sottotono, si tenne, al C.s.o.a. Garibaldi di Milano, la prima di “L’assemblea rimane aperta”. Il titolo voleva essere un tentativo di far passare l’esperienza come prima tappa di un percorso antagonista che in realtà, all’epoca, lo sapevamo tutti, era già morto e sepolto. Il dibattito successivo alla visione del documentario fu inizialmente condizionato da una certa perplessità che aveva assalito gli spettatori riguardo al senso del nostro prodotto, che, vi accorgerete vedendolo, è in effetti un po’ sfuggente. Malgrado tutto, credo sia stato utile a tutti ripensare quell’esperienza con distacco per abbozzarne un bilancio, positivo o negativo che fosse. In seguito, “L’assemblea rimane aperta” fu proiettato alla facoltà di Scienze Politiche di Milano e poi, credo, basta.
Il nostro scopo, alla fine, era stato quello di confezionare una sorta di testimonianza, utile a futuri analoghi esperimenti di lotta in ambito studentesco, ovvero in una realtà nella quale le esperienze delle generazioni precedenti vanno necessariamente perse. Ogni esperimento di occupazione scolastica coinvolge infatti un gruppo di persone che difficilmente ripeterà l’esperienza, almeno non nello stesso istituto: quel gruppo infatti terminerà il ciclo di studi e lascerà la scuola. In questo senso, la presa di coscienza dei limiti, degli errori, come dei risultati e dei successi raggiunti nell’ambito di un percorso politico e antagonista, resta un patrimonio condiviso da persone che si lasceranno alle spalle l’ambiente scolastico, e che con esse svanirà; ogni generazione di studenti, per forza di cose, parte da zero, ripetendo probabilmente gli stessi errori delle generazioni precedenti. Questa riflessione ci ha spinti a portare a termine, malgrado tutto, “L’assemblea rimane aperta”, un documento che, seppur scassato e interlocutorio, pensiamo possa avere una sua funzione, di testimonianza, in qualche modo “didattica”.
Una nota: durante l’occupazione, l’università ospitò una breve esibizione di Patrizio Fariselli, mitologico tastierista degli Area, band milanese degli anni ’70, di cui noi Kalashnikov siamo grandi e devoti fans. Quella sera, intervistammo Patrizio, ma, a causa della troppa birraccia in lattina deglutita, non riuscimmo a formulargli delle domande interessanti. Per questo decidemmo poi di non includere l’intervista nel montaggio definitivo di “L’assemblea rimane aperta”.
Detto questo, buona visione! [Dal retro di copertina del dvd di “L’assemblea rimane aperta”: L’ASSEMBLEA RIMANE APERTA! Frammenti dall’occupazione dell’Università Statale di Milano. Tra ottobre e novembre del 2005 gli studenti dell’Università Statale di Milano decisero, sull’onda delle manifestazioni anti-Moratti che coinvolsero la popolazione studentesca di tutta Italia, di occupare l’ateneo di via Festa del Perdono 3. “L’assemblea rimane aperta” non vuol essere una cronaca fedele di quei giorni, né tanto meno vuol rappresentarne un bilancio. L’intenzione è piuttosto quella di far rivivere, per quanto è possibile, il clima che si respirava all’interno dell’ateneo, con la sola preoccupazione di mettere in luce alcune dinamiche caratteristiche della pratica dell’occupazione. Questo documento restituisce alcuni frammenti dell’esperienza, sui quali aprire un confronto, avviare una riflessione sui limiti e sulle potenzialità, sui risultati ottenuti e su quelli mancati. Ma soprattutto, vuol rappresentare un momento dal quale partire per rilanciare nuove e future strategie di lotta"
]